
Employer Branding / Employability
Job hopping: generazioni a confronto
Cosa significa job hopping, perché è in crescita e come Millennials e Gen Z stanno cambiando il mercato del lavoro.
DI Giovanni de Mojana / luglio 2025
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, il job hopping è la tendenza a cambiare frequentemente lavoro per cogliere nuove opportunità professionali. Il termine, che letteralmente significa “saltare da un lavoro all’altro”, descrive un percorso in cui si rimane in una posizione per uno o due anni prima di passare a un’altra più in linea con le proprie aspirazioni.
Il succo è trovare un equilibrio ottimale tra vita privata e carriera, migliorando nel tempo sia le competenze che la qualità della vita lavorativa.
Questo fenomeno è spesso associato ai giovani, in particolare alla Generazione Y (i Millennials) e alla Generazione Z. Tuttavia, se guardiamo oltreoceano, negli Stati Uniti, il job hopping è da tempo considerato una componente naturale della cultura lavorativa, ed è quindi culturalmente meno stigmatizzato rispetto all’Italia.
Ciò che un tempo veniva interpretato come instabilità o mancanza di lealtà rispetto al proprio posto di lavoro, oggi assume un valore completamente nuovo, e spesso positivo.
Per le aziende che vogliono attrarre e trattenere i talenti, comprendere cosa spinge le persone a lasciare un lavoro per un altro, è ormai una chiave di lettura strategica.
Partiamo!

1. Il job hopping non è più un tabù
Come anticipato nell’introduzione, il job hopping non è più considerato prerogativa di pochi individui insoddisfatti o irrequieti. È piuttosto diventato una scelta consapevole, spesso dettata dal desiderio di crescita personale e professionale.
Il valore percepito di un impiego, oggi, non si misura solo in termini di stabilità, ma anche e soprattutto in termini di opportunità offerte, per questo molti lavoratori scelgono di costruire un percorso dinamico, alla ricerca di qualcosa che soddisfi formazione, percorsi di carriera chiari, equilibrio tra vita privata e lavoro (work-life balance) e, non da ultimo, affinità valoriale con l'azienda.
Il fenomeno del job hopping, nato negli Stati Uniti, si è progressivamente diffuso anche in Europa e in Italia.
Bisogna anche tener conto che negli USA il mercato del lavoro presenta un equilibrio particolare: a fronte di circa 6 milioni di persone in cerca di occupazione, ci sono ben 6,7 milioni di posizioni aperte. Cambiare lavoro ogni due o tre anni aumenterebbe del 30% il proprio stipendio. Non sorprende, quindi, che secondo un’indagine pubblicata su Forbes, il 64% dei lavoratori americani si identifichi come job hopper, ovvero propenso a cambiare impiego con una certa regolarità.
Per quanto riguarda l’Italia, un’indagine dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (ANPAL), condotta nel 2023, evidenzia un marcato aumento nel numero di persone che hanno cambiato lavoro almeno due volte nell’arco di 24 mesi. Mentre nel biennio 2015-2016 i casi registrati erano circa 2,35 milioni, nel periodo 2020-2021 sono saliti oltre i 2,8 milioni, segnando un incremento del 20%.

Un job hopper ce lo immaginiamo così.
2. Le generazioni e il lavoro: aspettative a confronto
Il modo in cui i lavoratori vivono il job hopping varia sensibilmente a seconda dell'età e del contesto culturale.
I giovani nati intorno al Duemila vivono l’impiego e la crescita professionale in modo radicalmente diverso rispetto ai loro genitori, appartenenti alla generazione dei baby boomer: l’idea di un posto fisso, con avanzamenti di carriera regolari e una permanenza di almeno vent’anni, se non per tutta la vita, appare oggi superata e poco attraente.
I Millennials, invece, mostrano una propensione al cambiamento. La loro carriera è vista come un percorso fluido, dove ogni esperienza rappresenta un tassello utile per acquisire nuove competenze e raggiungere obiettivi più ambiziosi.
La Generazione Z porta una prospettiva ancora diversa. Cresciuta in un mondo iperconnesso e perennemente instabile, è abituata a gestire le complessità con flessibilità. Cerca ambienti inclusivi, dove sentirsi ascoltata e valorizzata. Per questi, la possibilità di cambiare velocemente è parte integrante del loro rapporto con il lavoro: non un'anomalia, ma una modalità naturale di evolvere.
Ora, a fronte di quanto emerso sopra, come rispondono le aziende ai job hopper e più in generale al cambiamento?

Hop - là
3. Come le aziende possono rispondere al job hopping
Di fronte a uno scenario così fluido, le aziende non possono limitarsi a "trattenere" i propri collaboratori; devono costruire ambienti in cui le persone desiderino rimanere.
Una strategia efficace parte dall'ascolto: comprendere i bisogni specifici delle diverse generazioni permette di costruire un'offerta di valore autentica. Investire nella formazione continua, per esempio, risponde all'esigenza di crescita dei profili più giovani, ma è utile anche per riqualificare le competenze dei lavoratori senior, mantenendoli aggiornati e motivati.
Coltivare la cultura aziendale è cruciale: le persone non cercano solo benefit o premi economici, ma vogliono riconoscersi nei valori dell'azienda, sentirsi parte di una visione più ampia. Per fare un esempio, se “DE&I” non è parte del vocabolario aziendale, forse è tempo di inserirlo.
Infine, comunicare in modo efficace attraverso un employer branding ben costruito significa raccontare l’identità dell’azienda con coerenza, in ogni forma di comunicazione interna ed esterna. Non serve “vendere” un’immagine, serve piuttosto costruire una narrazione autentica, sviluppata in logica inbound, capace di attrarre e coinvolgere nel tempo.

Si può essere job hopper a tutte le età
Il job hopping non è un capriccio generazionale né una moda passeggera nata dalla crisi. È la risposta a un mercato del lavoro sempre più incerto, in cui la stabilità lascia spazio all’aggiornamento continuo e alla capacità di reinventarsi.
Ne consegue che saper gestire il turnover e valorizzare le aspettative delle persone non è solo una questione di retention, ma di visione strategica.
Per HR e aziende che vogliono "evitare" il job hopping, la vera sfida non è trattenere le persone a tutti i costi, ma creare contesti in cui valga davvero la pena restare.
CHI L’HA SCRITTO?

Nato nel 1995 a pochi metri da dove avrebbe lavorato 29 anni più tardi, Giovanni trova la sua vocazione nel copywriting un anno prima di compiere trent'anni. Figlio di una scrittrice, crede di aver ereditato un qualche gene per l'arte, nutrendosi dunque di fotografia d'autore, cinema d'essai e musica folkloristica. Ama la montagna, ha un cane che ama la montagna, e, quando può, viaggia in Paesi dove, puntualmente, scoppia una guerra o si verifica qualche catastrofe naturale subito dopo la sua partenza.