Possiamo migliorare la felicità sul lavoro con il corporate wellbeing?
Spoiler: no. O meglio, il corporate wellbeing è una delle tessere del puzzle. Per una spiegazione articolata ti serve leggere tutto l’articolo: daje.
DI Francesca Fantini / ottobre 2025
Secondo l’employer brand research 2025 di Randstad, il 36% dei lavoratori italiani ha recentemente cambiato impiego o intende farlo nel breve periodo.
Questo scenario ha cause complesse, ma in generale possiamo dire che buona parte del problema risiede nella scarsa capacità delle imprese nel creare ambienti in cui le persone possano prosperare non solo a livello professionale, ma anche personale.
Emerge una spaccatura culturale in cui il lavoro è percepito sempre più come un detrattore della qualità della vita, anziché una sua componente arricchente. Le persone trovano appagamento e benessere nonostante il proprio impiego, non grazie ad esso. Questa dinamica rende la lealtà aziendale estremamente fragile.
Eppure passiamo sul lavoro gran parte della nostra vita: questo tempo ci appartiene e dovremmo renderlo appassionante, coerente rispetto ai nostri valori, sensato.
1. La relazione fra benessere organizzativo ed employee engagement
Per agire in modo strategico, dobbiamo prima fare chiarezza. I due concetti di corporate wellbeing - benessere organizzativo e felicità sul lavoro - employee engagement non sono sinonimi.
Il benessere organizzativo è l’input. È la salute del sistema in cui le persone operano. Riguarda la sostenibilità dei carichi di lavoro, la qualità della leadership, la sicurezza psicologica, l’equità dei processi e le opportunità di crescita. È il terreno fertile su cui matura l’employee engagement, che è l’output: la connessione intellettuale ed emotiva che una persona sente verso il proprio lavoro e gli obiettivi dell’azienda. È l’energia discrezionale, quel “passo in più” che nessuno può imporre per contratto.
Quanti così il venerdì pomeriggio? E quanti invece il lunedì mattina?
2. Le leve del benessere organizzativo che agiscono direttamente sull'engagement
Come si coltiva, quindi, questo terreno fertile? Agendo su leve sistemiche: ecco quattro aree di intervento strategico per il benessere organizzativo che hanno un impatto diretto sull’employee engagement.
1. Salute mentale e sicurezza psicologica
È il fondamento. Nessuno può sentirsi ingaggiato se prova ansia, se teme il giudizio per un errore o se non si sente sicuro di esprimere un’opinione divergente. Un ambiente psicologicamente sicuro non solo previene il burnout, ma libera l’energia necessaria per sperimentare e innovare.
2. Crescita e sviluppo sostenibile
L’engagement cresce quando le persone percepiscono un futuro. Non si tratta solo di offrire corsi di formazione, ma di creare percorsi di crescita professionale chiari e accessibili. Sentire che l’azienda investe sulla propria evoluzione è uno dei più potenti motori di commitment a lungo termine.
3. Equilibrio e flessibilità reale
Il vero benessere a lavoro coincide con il garantire la sostenibilità del ritmo di lavoro. Flessibilità significa smart working, ma non solo: le imprese più innovative concedono autonomia, fiducia e un’organizzazione del lavoro che rispetti i tempi di organizzazione della vita privata e di recupero. Le persone che si sentono rispettate nel loro equilibrio vita-lavoro sono più motivate.
4. Una leadership di supporto
Ne abbiamo già parlato altrove: molto spesso le persone si licenziano dal proprio capo, non dal proprio lavoro. Il proprio leader è il primo fattore di engagement (o disengagement) di una persona. Le persone che agiscono come coach, che rimuovono ostacoli, che danno feedback costruttivi e che si interessano sinceramente al benessere del proprio team sono il catalizzatore più potente di un engagement autentico. Non che questa sia una novità, ma è importante ricordarlo.
POV: quando ti ricordi la password di Shutterstock al primo colpo.
Fin qui, tutto bello. Una lista di buone intenzioni che qualsiasi dipartimento HR potrebbe trasformare in un colorato PowerPoint. Ma è proprio qui che, nove volte su dieci, il piano fallisce.
Molto spesso confondiamo l’intervento con l’intenzione: pensiamo alle imprese che istituiscono un supporto psicologico (spunta su salute mentale), comprano una licenza per un catalogo di corsi online (spunta su crescita), concedono un giorno di smart working in più (spunta su flessibilità). Ma non cambiano nulla di sostanziale.
Non puoi installare la sicurezza psicologica come un software. Non puoi delegare la crescita a un video corso se poi i manager non danno spazio per applicare ciò che si è imparato. E non puoi parlare di equilibrio se poi mandi email alle dieci di sera.
Il punto è questo: dobbiamo smettere di pensare al corporate wellbeing come se fosse un’aggiunta, un accessorio carino per lucidare l’employer brand.
Torniamo alla domanda iniziale: possiamo migliorare la nostra felicità sul lavoro con il corporate wellbeing? La risposta resta no, se per wellbeing intendiamo la collezione di benefit pensati per rendere un lavoro mediocre un po’ più sopportabile.
La risposta è sì se con corporate wellbeing intendiamo la riprogettazione del lavoro stesso, per renderlo non per forza appagante, ma quantomeno sostenibile.
CHI L’HA SCRITTO?
Nata da un felice connubio tra Italia del nord e del sud, possiede il gene prepotente della curiosità. Copywriter di professione, storyteller per vocazione, vegetariana per scelta, nel tempo libero fa esperimenti ai fornelli e acquista più libri di quanti potrà mai leggerne.

